altAttraverso il finestrino di un’automobile in corsa, un fotografo riprende il paesaggio circostante. Le immagini del video barcollano assecondando la strada sconnessa. Apparentemente, un comune “filmino di viaggio”, un punto di vista registrato e riproducibile, un personale e privato home video. A un tratto, un gregge di pecore occupa lo spazio della ripresa; l’occhio meccanico della telecamera s’ipnotizza e quel flusso di animali si trasforma, si astrae, si stacca per divenire qualcos’altro: immagine. Prima ancora dell’immagine video/cinematografica, però, è l’atto stesso dello staccarsi, del separarsi, che qui, e altrove, nel cinema di Atom Egoyan, assume rilevanza decisiva.

Passato alla storia come regista ‘del video’, autore dall’«identità astratta», come egli stesso si è definito, questo cineasta di origine armena – nato in Egitto, residente in Canada – ha infatti tessuto negli anni un cinema «apolide» (Ghezzi, fuori orario, ottobre ‘94), segnato da una distanza, in primo luogo quella (inevitabile) della memoria, o meglio, da un distacco, che è anzitutto quello del popolo armeno, sterminato e costretto all’esilio dalla sua terra. La sua opera si compone d’immagini che come fili «corrono da un film all’altro, si distendono, si sovrappongono, scompaiono e ricompaiono, rivelando, alla fine, sulla superficie dello schermo un disegno perfettamente controllato, geometrico, mentale, tracciato dalle sensuali linee dei movimenti di macchina e abitato da figure e ossessioni sempre presenti» (Momo 2000, p. 3). Egoyan ci presenta tali immagini nella loro dimensione più materica: schermi e dispositivi filmici occupano abitualmente parte del quadro; ripresa e visione divengono il loro stesso oggetto formando in questa maniera un enigmatico nastro di Moebius. Questo implica, o più semplicemente evidenzia, uno scollamento, una separazione dal mondo: l’immagine si rivela così pura alterità, un distinto che trova ragione d’essere proprio nel suo distanziarsi.

Il finestrino che separa il fotografo (interpretato, non a caso, dallo stesso Egoyan) dal mondo esterno, nella scena rievocata poco fa – tratta da Calendar (1993) – diviene, allora, la lente (il vetro) attraverso cui l’autore filma la realtà, lo spartiacque che divide e che così genera tale distanza. La prima straordinaria sequenza di Adoration (2008) – altro film “minore”, dopo una serie di produzioni più imponenti a livello di budget – sembra ripetere lo stesso schema: la prospettiva ricorda quella di qualcuno che guarda da un finestrino di un’automobile; la mdp si muove sinuosamente da sinistra verso destra inquadrando in campo lungo un parco urbano, per fermarsi solo nel momento in cui al centro del quadro si troverà una figura che poi scopriremo essere quella di Simon, il protagonista della storia. Ciò che importa qui, però, non è quello che viene rappresentato (del resto, nell’economia della narrazione tale segmento si capirà essere totalmente inutile), ma è la presenza di uno sguardo, di qualcuno o qualcosa che guarda, che, sancendo un divario, infonde a tutta la sequenza una profonda inquietudine, una tensione ipnotica. Tale ipotesi pare confermata dal fatto che nella scena immediatamente successiva che conclude il prologo, la mdp, stavolta ritraendosi, compiendo, cioè, un movimento all’indietro, mostra esattamente questo: un personaggio che guarda un altro personaggio. Tra i due si palesa proprio quella distanza percepita poco prima e che, di nuovo, si avverte ora: qualcuno (o qualcosa) sta guardando a sua volta questi due personaggi.

Prima ancora di iniziare, dunque, Adoration appare già come limpida sintesi e nuova, potente, riaffermazione di una poetica maturata negli anni dal cineasta canadese. Del resto, nel prosieguo del film torneranno come spettri (o doppelgänger) corpi, personaggi, situazioni o atmosfere già viste (o sentite) in passato, in un processo di continua evocazione e stratificazione di immagini: dal rapporto nonno/nipote di Black Comedy (1987) a quello (di adorazione) figlio/madre de Il viaggio di Fenicia (1999); dalla dogana aeroportuale di Ararat (2002) alla comunità de Il dolce domani (1997). Rispetto a tale ultima pellicola, in special modo, Adoration sembra possedere una struttura speculare: la vicenda in entrambi i casi ruota (a spirale) attorno ad un incidente (realmente accaduto o solamente ipotizzato); ma se nel primo caso il movimento dell’intero film è centripeto, nel secondo, all’opposto, l’estensione è centrifuga. Ciò che accomuna i due lavori è che questo lento avvicinamento/allontanamento non trova una fine (nemmeno con il termine della pellicola), ma resta sospeso, in perenne tensione, senza alcuna possibilità di concludersi e dunque di chiudersi: come nel night club di Exotica (1994), dove la mano non può mai arrivare a toccare il corpo della ballerina, dovendo sempre, necessariamente, restare a distanza.

Tutto, in fondo, è già nel titolo. “Adorazione” deriva dal latino adoratio; è un termine che in origine indicava gli atti esprimenti il sentimento di venerazione e di rispetto verso ciò che era considerato sacro. Seguendo l’insegnamento di Jean-Luc Nancy, “sacro” non va confuso con “religioso”. Il filosofo francese definisce, infatti, la religione come «l’osservanza di un rito che forma e mantiene un legame (con gli altri o con se stessi, con la natura o con un che di soprannaturale)», mentre, all’opposto, «il sacro è ciò che di per sé resta a distanza, nella lontananza, e col quale non ci possono essere legami (o solo un legame molto paradossale)» (Nancy 2002, p. 31). Sacro è ciò che egli chiama il distinto e che lui stesso paragona all’immagine: come il distinto, quest’ultima «non tocca ed è dissimile», cioè, «occorre che essa sia distaccata, messa fuori e davanti agli occhi (…), e occorre che sia diversa dalla cosa. L’immagine è una cosa che non è la cosa: se ne distingue essenzialmente» (ivi, p. 32). Il cinema di Egoyan sembra teorizzare proprio tale assunto. In Adoration, come del resto in tutto l’opus del regista, l’immagine si separa – letteralmente – svelando così la propria natura e l’incolmabile distanza che la distingue dal mondo reale. In questa maniera Egoyan riesce a far emergere dalla superficie profonda dello schermo quella forza, quella intensità, quella intimità, che è propria dell’immagine, o meglio che è l’immagine stessa poiché «il tratto dell’immagine (il suo tracciato, la sua forma) è esso stesso la sua forza intima: questa forza intima, infatti, l’immagine non la “rappresenta”, ma la è, la trae e la ritrae, l’estrae, trattenendola, ed è così che ci tocca» (ivi, p. 37).

L’adorazione di Simon verso sua madre è, allora, adorazione verso l’immagine. Che poi, a ben vedere, si tratta di cosa propriamente identica poiché, se è vero che nel cinema di Egoyan l’immagine è sempre materiale, come spiega ancora Nancy, «la materia è innanzitutto la madre (materies viene da mater, il cuore dell’albero, il legno duro) e la madre è colei, dalla quale e nella quale c’è distinzione: nell’intimità della madre un’altra intimità si separa e un’altra forza si forma, un altro stesso si stacca dallo stesso per essere se stesso» (ivi, p. 47).
La riflessione giunge a lambire l’incesto, un’ombra che ritorna spesso nell’opera del regista. Basti pensare all’ambiguo rapporto, già ricordato, tra il personaggio di Bob Hoskins e (l’immagine di) sua madre ne Il viaggio di Fenicia o alla scena cult di Mondo virtuale (1989) dove i protagonisti Clara e Lance (che rassomiglia moltissimo al fratello defunto di lei) hanno un rapporto sessuale “via cavo”, ossia mediato dallo schermo televisivo. Tralasciando il discorso sulla sensualità (altra fondamentale componente delle immagini egoyane), quel che qui interessa è che nell’atto dell’incesto è possibile riconoscere un tentativo di ricomporre un’unità infranta, di recuperare qualcosa di ormai perduto, di colmare un vuoto che dilania. Per certi versi, l’unico luogo che permetterebbe di legare, di tenere insieme, di montare sarebbe proprio il cinema. Ma, paradossalmente, come dice lo stesso Egoyan avendo in mente lo sguardo adorante di Anna Karina in Questa è la mia vita, «il cinema inizia con un volto che guarda uno schermo» (Egoyan 2013 p. 166). E con una lacrima che da questo, violentemente, delicatamente, si stacca.


Bibliografia

Egoyan A. (2013): Questa è la mia vita, in «Fata Morgana», 20, maggio – agosto.

Momo A. (2000): Sul filo del tempo, in Momo A. (a cura di): Atom Egoyan, Dino Audino Editore, Roma.

Nancy J-L. (2002): L’immagine – Il distinto, in Tre saggi sull’immagine, Edizioni Cronopio, Napoli.






Titolo originale:
Adoration
Anno: 2008
Durata: 100
Origine: CANADA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Specifiche tecniche: 35 MM (1:1.85) - DE LUXE
Produzione: EGO FILM ARTS, SERENDIPITY POINT FILMS, THE FILM FARM, ARP

Regia:
Atom Egoyan

Attori: Arsinée Khanjian (Sabine); Scott Speedman (Tom); Rachel Blanchard (Rachel); Noam Jenkins (Sami); Devon Bostick (Simon); Kenneth Welsh (Morris); Thomas Hauff (Nick); Geraldine O'Rawe (Carole); Louca Tassone (Simon bambino); Tony Nardi (Robert); Katie Boland (Hannah); Janice Stein (Janet); Hailee Sisera (Jennifer); Aaron Poole (Daniel); Paul Soles (Ira).
Sceneggiatura: Atom Egoyan
Fotografia: Paul Sarossy
Musiche: Mychael Danna
Montaggio: Susan Shipton
Scenografia: Phillip Barker
Arredamento: Jim Lambie
Costumi: Debra Hanson
Effetti: Rocket Science VFX

Riconoscimenti

Reperibilità


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