alt(letto su una rivista di moda, in attesa dall'oculista)

«Non so quante diottrie per occhio manchino a Jean-Luc Godard. Potete vederlo levarsi o indossare gli occhiali per leggere un foglio, oppure guardare nel mirino di una macchina da presa (e/o di una telecamera). Come mette a fuoco un miope? E uno strabico? (mettiamo le mani avanti: chi scrive ha sofferto di astigmatismo).

Mettono a fuoco con un occhio solo. Al cinema, funziona così: si mette a fuoco e si inquadra con un occhio solo. È per questo che alcuni “guerci” sono stati grandi cineasti: John Ford, Raoul Walsh, Howard Hawks, Fritz Lang, Nicholas Ray... e – aggiungiamo – André de Toth. È proprio lui a convincere Jack Warner (soprannominato J. L.) che, pur “guercio”, sarebbe stata la persona adatta per dirigere House Of Wax (1953), la risposta della Warner a Bwana Devil, realizzato l'anno precedente, l'anno in cui Hollywood inizia a investire sui film in “rilievo” con lenti “polarizzanti” (fin dagli anni dieci si tenta invece di elaborare visioni “anaglifiche”: Niagara Falls di Porter è del 1915).

«- Sei mezzo cieco. Dimmi un po' come puoi realizzare un film in rilievo. Ti troverò qualcos'altro.
Il colloquio era chiuso. Prese il telefono e domandò a Bill Schaefer, il suo segretario, di far venire la sua massaggiatrice. Ma per me il colloquio non era ancora chiuso.
- Mi dia un minuto J. L..
Prese il telefono e mi disse, prima di rivolgersi a Bill.
- Hai un minuto. E poi a Bill:
- Falla aspettare cinque minuti.
Si appoggiò alla poltrona e mi disse:
- Il minuto sta passando.
- Con un occhio solo, potrei fare un film in rilievo meglio di...
- Mancano trenta secondi. Vieni al dunque.»
(Slide in Lefebvre, Michaud 1997, p. 123 – traduzione nostra)

Nella vita quotidiana vediamo correttamente grazie a quella che chiamiamo corrispondenza retinica, ottenuta naturalmente o per “vergenza”. I nostri occhi colgono ciascuno un'immagine, ma il nostro cervello la elabora come singola attraverso un processo di fusione. Sembrano identiche, ma le immagini che i nostri occhi colgono divergono, per disparità di fissazione (sensibilizzazione ineguale delle due fovee), oppure a causa di una disparità stereoscopica. Verso la prima metà del XIX secolo (1833), Charles Wheatstone scopre che una scena tridimensionale proietta immagini leggermente differenti sulle due fovee, in ragione della parallasse binoculare, vale a dire lo scarto tra i due occhi, che varia dai 6 ai 7 centimetri. Le immagini sembrano identiche, ma osservandole con un occhio chiuso ci accorgiamo della sottile divergenza, che si traduce paradossalmente nella percezione di una profondità di campo. Ciò che prende il nome di stereopsi. Quell'aggeggio chiamato stereoscopio, inventato nell'Ottocento permette appunto la visione tridimensionale delle immagini fotografiche. Ed è lo stesso Wheatstone a sottolineare che:

«Quando un oggetto è visto a grande distanza, tale che gli assi ottici di entrambi gli occhi sono sensibilmente paralleli mentre si dirigono verso quest'oggetto, la percezione in prospettiva, vista separatamente da ciascuno degli occhi, e l'apparenza dell'oggetto ai due occhi è precisamente la stessa di quando l'oggetto è visto da un occhio solo.»

Mentre – caso opposto:

«Quando l'oggetto è posto così vicino agli occhi che per vederlo gli assi ottici devono convergere […] una differente proiezione in prospettiva dell'oggetto è vista da ciascun degli occhi, e queste prospettive sono tanto più dissimili quanto più grande è la convergenza degli assi ottici.
(Wheatstone in Crary 2013, p.125)»

alt(pagina pubblicitaria:
Que chaque oeil négotie pour lui – même
Jean-Luc Godard, Histoire(s) du cinéma, 1A)





Pur da “guercio”, André de Toth ha compreso alcuni meccanismi del 3D. Questi:

«La distanza tra i due assi ottici delle macchine da presa che filmano, simultaneamente in 3D, la stessa azione, è equivalente alla distanza tra i due occhi umani – circa sei centimetri. Questa distanza è evidentemente fissa, contrariamente alla distanza tra gli assi ottici della macchina da presa che, quanto a lei, può variare e amplificare l'effetto tridimensionale. Questa facoltà di amplificazione, in congiunzione con la selezione degli obiettivi, si dimostra cruciale. Essa deve essere utilizzata con circospezione al fine di evitare ogni fatica all'occhio. […] Creare una terza dimensione per proiezione frammenta la funzione normale dell'occhio che è quella di mettere a fuoco la realtà, su oggetti che esistono in diversi punti dello spazio – una terza dimensione reale e naturale. Ma sullo schermo, gli occhi sono costretti a mettere a fuoco su oggetti illusori distanti dal punto di convergenza naturale, lo schermo cinematografico. E il fatto di mettere a fuoco naturalmente sullo schermo, il punto in cui i leoni saltano, fino ad arrivare sulle ginocchia dello spettatore, lacera letteralmente i muscoli dell'occhio.»
(Slide in Lefebvre, Michaud 1997, pp. 116-117)

Questi precetti per un uso non troppo amplificato del 3D, in modo da non disturbare la narrazione, la sua linearità, le azioni, i movimenti degli attori e il “posto” assegnato allo spettatore (sono regole auree hollywoodiane: immedesimazione, posizione immaginaria dello spettatore, materializzazione di un corpo psichico da lui stesso emanato – la proiezione hollywoodiana in 3D sembra il trionfo di questa sorta di fantasmagoria) vengono totalmente disattese dal primo film in “rilievo” realizzato da Jean-Luc Godard, Adieu au langage, un film che neppure mille visioni riuscirebbero a esaurire.
Godard sembra aver preso alla lettera una preoccupazione di Rudolf Arnheim, scritta nel 1933, trasformandola in un piano d'azione: «Ma se l'immagine cinematografica diventa stereoscopica non c'è più una superficie piana entro i confini dello schermo, e non può più esservi proiezione su questa superficie.» (Arnheim 1960, p. 176). Come se in Adieu au langage la vera preoccupazione di JLG fosse proprio quella di testare, complicare, differire, ostacolare il punto (la convergenza), la giusta distanza di messa a fuoco di cui parlava de Toth, non tanto amplificando – piuttosto sfalsando, pervertendo la proiezione dell'immagine sulla superficie dello schermo, ciò che Arnheim appunto deplorava, con senso di perdita.

«La nitidezza è un'impossibilità ottica», sosteneva André de Toth. Godard lo sa bene. Vedendo Adieu au langage ne avrete un'idea. Gli occhiali che ci vengono consegnati sono in questo caso protesi che invece di “aggiustare” una nostra debolezza ottica, perversamente non aggiustano un bel nulla (ma come vede un miope in 3D? E un presbite? Uno strabico?). In più di un momento la visione sembra in preda a vertigini, disturbi ottici, buchi: proprio ciò che de Toth biasimava. A volte i nostri occhi sembrano divergere totalmente, negoziando davvero ognuno per conto suo (scena di separazione – due personaggi: uno dei due si allontana, l'altro resta immobile. Un occhio resta sul primo, l'altro segue il secondo, creando una specie di flou, di sovrimpressione – come se i muscoli dell'occhio e i dati che arrivano al cervello non riuscissero a gestire le informazioni). Tutto questo è possibile proprio perché Godard modifica, altera in certi casi la convergenza, l'asse ottico delle macchine fotografiche digitali, sfalsando la nostra percezione, la nostra visione. Que chaque oeil négotie pour lui – même. Che ciascun occhio negozi per sé – anche (c'è qualcosa di celibe, quasi duchampiano, in quel même).

altPossiamo vedere il film con entrambi i nostri occhi aperti. Se terremo solo l'occhio sinistro aperto vedremo una cosa; se terremo aperto solo il destro, vedremo qualcosa di diverso. Sono i nostri occhi a “montare” il film? È comunque attraverso questa alterazione della convergenza che diventa possibile (se lo domanda Godard nel film) far entrare la piattezza nella profondità. Le tre opzioni indicate da Ejzenstejn (1947) nel suo saggio intitolato Sul cinema stereoscopico – 1) immagine simile ad un altorilievo piatto, in bilico sulla superficie dello schermo 2) lavoro sulla profondità dell'immagine 3) lavoro sulla proiezione dell'immagine al di fuori dello schermo – vengono elaborate da Godard con un lavoro certosino, complesso, minuzioso (soprattutto la seconda opzione), giungendo a decostruire il luogo comune del 3D inteso come macchina spettacolare. JLG sembra qui far propria un'ipotesi che René Barjavel aveva lasciato su carta nel 1944:

«I primi realizzatori che utilizzeranno il rilievo si divertiranno a dare alle folle il fremito della sorpresa e della paura. Sugli spettatori tranquillamente seduti sulle loro poltrone, precipiteranno delle macchine urlanti, delle belve inferocite, delle tempeste.
Passata la prima emozione, con il mondo abituato a questo nuovo giocattolo, occorrerà diventare seri. Allora i commercianti, che sono i padroni del cinema mondiale, reclameranno cosce e seni, poiché è ancora questo che attira di più i consumatori.»
(Barjavel 2001, p. 60).

A partire dalla fine degli anni Sessanta (The Stewardesses di Allan Sulliphant, viene datato tra il 1968 e il 1970) cosce e seni sono apparsi in diverse produzioni porno in 3D. Cosce e seni (e culi e fiche e cazzi) appaiono anche in Adieu au langage, anche se non esattamente nel modo in cui i commercianti avrebbero desiderato. Nondimeno, Adieu au langage è un film letteralmente osceno:

«Lo stereoscopio come mezzo di rappresentazione è intrinsecamente osceno, nel senso più letterale del termine. Esso frantuma la relazione scenica fra l'osservatore e l'oggetto, una relazione che è connaturata alla struttura essenzialmente teatrale della camera oscura. Il funzionamento stesso dello stereoscopio dipende, come già accennato, dalla priorità visiva dell'oggetto più vicino all'osservatore e dall'assenza di ogni mediazione fra l'occhio e l'immagine. […] Non è quindi affatto una coincidenza che nel corso del XIX secolo lo stereoscopio diventi progressivamente sinonimo di immagini erotiche o pornografiche.»
(Crary 2013, p. 132)

   
(pagina pubblicitaria – What Rock n' Roll Is About – Oblivians negli auricolari)

L'idea è semplice. Una donna sposata e un uomo solo si incontrano.
Si amano, litigano, volano pugni. Un cane vaga tra città e campagna.
Le stagioni passano. L'uomo e la donna si ritrovano.
il cane sta tra loro. L'altro è nell'uno. L'uno è nell'altro.
E sono tre persone. L'ex marito distrugge ogni cosa.
Un secondo film comincia. Lo stesso del primo.
E invece no. Dal genere umano passiamo alla metafora.
Finirà con dei latrati. E dei pianti di neonato.


Si sa, a Godard piace fare il contrario di quanto i professionisti della professione considerano solitamente bon ton. L'aria da moccioso pestifero e guastafeste l'ha sempre avuta, fin dai falsi raccordi in A bout de souffle. In Prénom Carmen – giusto per fare un altro esempio – ha ficcato la fine del film prima della metà della proiezione, o giù di lì, tanto per far capire quanto gliene importava della trama. E con l'andare degli anni la trama, la storia, questo legame lineare, questo patto con lo spettatore che passa attraverso ottiche e azioni, movimenti degli attori, si sono fatte sempre più burrascose, perturbate. Non che non ci siano. A ben vedere, una storia la si trova sempre. L'abbiamo riassunta poco sopra. Il fatto è che Godard fa saltare ogni rapporto, come se di una possibile sceneggiatura non restasse che la sua veduta esplosa. Negli anni, JLG ha lavorato per continui spostamenti del concetto di mimesis, triturando qualsiasi possibile immedesimazione con quanto accade sullo schermo. I corpi appaiono nel loro regime dinamico, frantumato, scultoreo: sono brandelli di figure, figure di corpo colte in determinati stati tensivi (o a riposo). I passaggi logici saltano perché, come i corpi, sono così ingranditi e frastagliati che fatichiamo a coglierli. Il suono ci avvolge. Strati di suoni (montaggi, ondate ottico-sonore). Assecondando una metafora pittorica, siamo in presenza – come per gli artisti romantici – di tocchi materiali, visibili, accentuati, espressione di un investimento nell'opera? Di certo, Godard non è un naturalista che con il suo tocco cerchi di mantenere un'accuratezza descrittiva e narrativa. È forse l'ultimo Impressionista.

altNel 1866, anno cruciale per il primo Impressionismo (debutto nel Salon di Claude Monet), Charles Blanc, teorico, critico, editore della famosa «Gazette des Beaux-Arts», resta colpito ad esempio dai paesaggi di Jean-Baptiste Camille Corot, sottolineando però anche i pericoli legati a un certo uso della pennellata. Nel suo reportage dal Salon, egli segnala come il lavoro col pennello debba coordinarsi con le reali dimensioni della tela:

«L'artista che dipinge con ampie pennellate all'interno di una tela di piccolo formato contraddice marcatamente se stesso perché, anche se le piccole dimensioni del formato invitano ad avvicinarmi, l'ampiezza dell'esecuzione mi tiene a distanza.»
(Blanc cit. in Shiff in Smith 2001, p. 132)

Davanti ai paesaggi di Corot, Blanc ha compreso alcune cose.

«L'impressione è una memoria dell'immagine poeticizzata, una sintesi di esperienza visiva, non la sua trascrizione istantanea. Nel processo di creazione della sua “impressione” ed esprimendo qualcosa della sua stessa anima, Corot (così Blanc sostiene) aveva eliminato diversi dettagli della rappresentazione che troviamo nei paesaggi tradizionali; le sue immagini erano caratterizzate da “foglie mancanti dagli alberi... fenditure escluse dalle rocce”. Per raggiungere un effetto riduttivo in maniera così generalizzata, era necessario uno sforzo concertato da parte di Corot; eppure, diversi pittori più giovani, si crucciava Blanc, imitavano semplicemente l'approssimazione dell'impressione espressiva di Corot, creando “un senso di già finito quando essi avevano giusto cominciato”. Un errore che altri avrebbero presto trovato in Manet e negli Impressionisti.»
(Shiff in Smith 2001, p. 133)

Il fatto è che con gli Impressionisti, il tratto, la pennellata, vengono liberate, assai più che in precedenza, dal loro tradizionale servizio reso nei confronti dell'immagine. Nell'epoca dell'Impressionismo, sostiene Richard Shiff, artisti e critici cominciano ad attribuire un significato al tratto in sé, anticipando dibattiti che entreranno nel vivo nel ventesimo secolo.
Non è forse questo che ritroviamo sia visivamente che narrativamente in Adieu au langage? Una specie di effetto concertato di riduzione, un perdere la visione descrittiva, dimenticando dettagli, amplificando il tratto a dismisura, fino a farlo esplodere, fino a farlo sentire, fino a farcelo toccare con gli occhi, tenendoci nello stesso tempo a distanza. Impressioni.
(Forse non è per caso che nel film appaia un uomo intento a sfogliare un catalogo di Nicolas de Staël.)

***

(pagina volante)

«Una certa agitazione di oggetti, di forme, di espressioni non si traduce bene se non nelle convulsioni e nei soprassalti di una realtà che sembra distruggersi da sola con un'ironia in cui si sentono gridare gli estremi dello spirito.»
(Artaud 2001 – soggetto di La Coquille et le Clergyman)

Una strana ironia, lugubre, rimbomba in Adieu au langage. Si tratta di qualcosa di nero, come il riso di Baudelaire, forse. L'ironia distrugge ogni armonia. La superficie dello schermo (quel che ne resta)  mostra i denti (quelli della cagnetta Roxy).

***

Adieu au langage è probabilmente il lavoro più libero mai realizzato da Godard, il film di un cineasta in piena forma, in un panorama cinematografico che ripete stancamente se stesso, in preda alla più totale asfissia. Resta da sottolineare un fatto incontestabile: questa gioia del fare a pezzi, del distruggere, questo muoversi furioso per tentativi, destabilizzando l'immagine, la sua tenuta, smontandola, è l'atto inventivo di un uomo innamorato. Ogni film di Godard è un atto di amore: per una donna, per un paesaggio, una città, per una citazione testuale, per un animale. Amore per il cinema, ovviamente. Così, anche questo film, simile a una rovina, alla fine dimostra di essere null'altro che l'autoritratto di chi l'ha realizzato. Il film di un uomo che a più di ottant'anni ci dice ancora che al cinema tutto è possibile, dato che non ci sono regole. Dicendo addio al linguaggio, o meglio, considerandolo come un accecamento, un disturbo oftalmico. E lo fa lasciandoci in una sorta di cecità. Nelle tenebre. Magari come quelle che circondavano Diderot, intento a scrivere a Sophie Volland.

Questo film è una lettera d'amore.

«Scrivo senza vedere. Sono venuto. Volevo baciarvi la mano [...] è la prima volta che scrivo nelle tenebre [...] senza sapere se formo dei caratteri. Dove nulla ci sarà, leggete che vi amo.»
(A Sophie Volland, 10 giugno o luglio, 1759) – Jacques Derrida cita e riadatta questa lettera nell'esergo del suo Memorie di cieco. L'autoritratto e altre rovine, (Derrida 2003, p. 11 e p. 124 – traduzione leggermente modificata)».

- Rinaldo Censi?
- Sì.
- Si accomodi, tocca a lei.


Bibliografia:

Arnheim R. (1960): Film come arte, Il Saggiatore, Milano

Artaud (2001): Cinema e realtà, in Del meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, a cura di G. Fofi, Minimum fax, Roma

Barjavel R. (2001): Cinema totale. Saggio sulle forme future del cinema, Editori Riuniti, Roma

Crary J. (2013): Le tecniche dell'osservatore. Visione e modernità nel XIX secolo, Einaudi, Torino

Deridda J. (2003): Memorie di cieco. L'autoritratto e altre rovine, Abscondita, Milano

Ejzenstejn S.M. (1947) in Id. (1982): Il colore, Marsilio, Venezia

Lefebvre T., Michaud P.-A. (a cura di) (1997): Le relief au cinéma, 1895, «Revue de l'association française de recherche sur l'histoire du cinéma», Hors Série, ottobre. Il numero è collegato alla rassegna sul 3D svoltasi presso l'Auditorium del Louvre, curata da Jean-Claude Lebensztejn

Smith T. (a cura di) (2001): Impossible Presence. Surface and Screen in the Photogenic Era, Power Pubblications, University of Sidney


Filmografia:

A bout de souffle (Jean-Luc Godard 1960)

Bwana Devil (Arch Oboler 1952)

House Of Wax (André De Toth 1953)

La Coquille et le Clergyman (Germaine Dulac 1928)

Niagara Falls (Edwin Stanton Porter 1915)

Prénom Carmen (Jean-Luc Godard 1983)

The Stewardesses (Allan Silliphant, 1969)





Titolo: Adieu au langage
Anno: 2014
Durata: 70
Origine: FRANCIA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO/SPERIMENTALE
Specifiche tecniche: 1.78 : 1
Produzione: Wild Bunch

Regia: Jean-Luc Godard

Attori: Alain Brat, Alexandre Païta, Bruno Allaigre, Christian Gregori, Daniel Ludwig, Florence Colombani, Gino Siconolfi, Héloïse Godet, Isabelle Carbonneau, Jean-Luc Godard, Jean-Philippe Mayerat, Jeremy Zampatti, Jessica Erickson, Kamel Abdeli, Marie Ruchat, Nicolas Graf, Richard Chevallier, Roxy Miéville, Stéphane Colin, Zoé Bruneau.
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Fotografia: Fabrice Aragno
Montaggio: Jean-Luc Godard

Riconoscimenti


http://www.youtube.com/watch?v=FtLr5rEi1VA

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