Opera prima seducente, ispirata al noto romanzo di Ingo Schulze, quella di Andreas Goldstein, che ha il merito di coniugare, affondando le radici nel discorso biblico della dimensione originaria degli uomini, linearità narrativa e memoria, mediante un’architettura che dilata, intensificandola, la vita, interiore dei singoli e collettiva dei popoli, nel traslato del simbolo e dell’allegoria. Poiché nei rimandi continui a parole, situazioni, oggetti presenti nella Genesi – a partire dagli stessi nomi, che esplicitamente richiamano quelli di Adamo ed Eva, e l’insistenza delle inquadrature sul giardino, la presenza del rettile strisciante, sebbene stenti nell’erba alta, secca, ma nella scatola si muova a tratti, impedito negli spostamenti, fino alla lettura della cacciata dall’Eden da parte di Adam seduto sul letto, mentre  Evelyn ostenta la carnalità delle labbra – il regista non esclude l’apertura al mondo, l’immersione nella storia, nel suo divenire.


L’esperienza percettiva che ne deriva, amplificata dal simbolo appunto, si impregna del contatto costante con lo spazio e il tempo non solo rappresentati ma anche ricordati, vissuti, conosciuti, dal momento che il «dove» è connotato in questo film nel segno del possibile: «[…] Non trattenermi […]» (traduzione mia, come per i seguenti riferimenti),  dice un’amica all’altra aspettando il turno di lavoro, riprese quasi immobili, spalle contro il muro in atteggiamento sognante, prima della scelta, drastica, di andare; seguendo la macchina da presa dal finestrino dell’automobile il paesaggio e le persone, secondo modalità espositive che tanto hanno del documentaristico nella voce fuori campo che ripercorre i fatti immediatamente precedenti la caduta del muro di Berlino.


La ridefinizione dei confini europei ha inizio qui, sul lago ungherese Balaton che è il pretesto di una vacanza, l’origine, in realtà, della possibilità di essere liberi. Il principio di realtà, costantemente attualizzato dalla memoria degli eventi di un fine settimana estivo del 1989 sul lago, configura il diramarsi triadico del tempo: del passato, nel riversarsi umano dalla Germania dell’Est verso ovest, quando i confini dell’Ungheria, anticipando la caduta del muro, iniziavano a vacillare; della presente estate, sul finire d’agosto che oscilla tra mari e terre e confini attraversati, o da attraversare, per mezzo di quell’operazione di cui scrive Bazin che dà avvio a quello sguardo interrogativo sul mondo e che rivela la modernità, il cinematograficamente attuale; del futuro, espresso ripetutamente, simbolicamente, nel guardare fuori, o in alto, e nelle domande che non trovano risposta, neppure alla fine, quando Adam non sa scegliere. Ha solo scelto di seguire Evelyn che, in un piano sequenza lunghissimo, sul filo teso di in incontro cercato, voluto, inghiottita dalla sera che scioglie e sfuma i contorni, lo accusa: «[…] Sai cos’è la cosa peggiore? Che tu faccia qualsiasi cosa, nulla ha a che fare con te […]».


Ma la libertà ha il prezzo cocente del discernimento, e ci guarda tremare, come i fotogrammi che pure tremano. Invece hanno a che fare con il fruitore dell’opera le cose viste, i luoghi, le azioni, le tentazioni, attualizzati dal regista in forma di immagini: la porta chiusa, sbattuta da Evelyn che va via, il retro dell’abitazione quasi sempre inquadrato nel lato privo di finestre, immersa nel giardino del paradiso, presto perduto, di Adam, ché «[…] solo Adam è in paradiso […]» – oppure, se qualche finestra compare nel film prima della conclusione, è nel movimento di chiusura delle imposte sgangherate – nell’opera instancabile di cucire abiti, ordire passioni, sviluppare foto di donne nude da rivestire di seta, rossa come la mela, bella come il peccato che ammalia; e ci riguardano l’amore, il senso del limite, il confine, individuale e collettivo, delle strade da percorrere, dei valichi da superare.

Ci ri-guardano le immagini che scivolano lentissime, quando non bloccate negli sguardi in primo piano spesso rivolti ad occhi che scrutano la notte, al lamento dei grilli: così simile al suono della macchina da cucire, che in dissolvenza sonora appare sullo sfondo di un giorno nuovo, questa volta al di là – e al di qua, nell’intimo dei protagonisti tornati l’uno al fianco dell’altra – delle finestre bianche su un paesaggio diverso da quel giardino da cui Evelyn è fuggita, e che espande la scena sui titoli di coda in raccordo sinestesico d’ago meccanico in musica. 

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