Murielle e Mounir. Lei è belga, insegnante, lui un marocchino accolto anni prima in Europa dal dottor André Pinget, a cui è molto legato. Sono giovani Murielle e Mounir, si innamorano, si amano, lei va a vivere da lui. La sua casa è quella del medico, sono in tre. La coppia si sposa e ha dei figli, la casa diventa più stretta, così come gli spazi di libertà di Murielle. Cambia lei, cambia Mounir, cambiano casa (ancora col dottore, da cui dipendono economicamente), ma soprattutto diventa sempre più inquietante e morbosa la presenza continua di Pinget. Mounir è sempre più succube di lui, Murielle sempre più isolata, svuotata, persa.

À perdre la raison scorre su una linea opaca. Come, del resto, tutta la produzione del trentanovenne belga Joachim Lafosse, autore di Folie privée e Ça rend heureux, di Nue propriété (Proprietà privata) ed Élève libre. Su una linea, cioè, di un cinema che scivola di traverso fra la concretezza ambigua, illusoria delle figure, e il sommerso della messa in scena, fra l’aderenza possibile –  cercata – alla misura dei personaggi e ciò che resta sfuggevole, imprendibile, segreto. Cinema che è la domanda ritornante, fluida, fra questi poli che si rivelano però false dicotomie, rispecchiamenti obliqui, impreviste tensioni a un contatto, che è frattura. Il regista cerca quelli che definisce “i nostri limiti”, dentro questo spazio: filmare è, inevitabilmente, ottusamente, un desiderio in pericoloso avvolgimento.

E filma innanzitutto storie di famiglie, di nuclei umani, figure in realtà di un impossibile insieme, Lafosse. Senza intiepidire o, al contrario, esacerbare il racconto, filma rapporti di potere e bisogni che sono dipendenze, filma gerarchie e incrinature, pulsioni e derive, (dis)appartenenze. Sono asimmetrie, chiusure e collisioni, quelle del suo cinema, sono abissi. Come in À perdre la raison. Perché si fanno progressivamente smarrimento, baratro, gli occhi di Murielle, la giovane madre (la splendida Emilie Dequenne, Rosetta dei Dardenne). Perché il rapporto tra lei e suo marito è sempre il riflesso (viene dunque dopo) – un riflesso distorto – di quello tra lui e André, il dottore (Tahar Rahim e Niels Arestrup, di nuovo insieme, di nuovo “coppia”, dopo Un prophète [Il profeta] di Jacques Audiard). Perché Murielle uccide i suoi figli, tutti, tre bambine e un maschietto.

Il regista si ispira a un particolare caso di figlicidio avvenuto in Belgio nel 2007 ma non gli interessa il ricalco, non gli interessa vidimare la cronaca, guarda la realtà per andare altrove, al suo cinema, all’introversa complessità del suo sguardo. Fa del prologo il tempo della tragedia già avvenuta; e, nel finale, dell’assassinio dei figli – dell’atto più estremo e crudele – una dolce, rassicurante chiamata di madre a condurre a sé (sfuggita d’improvviso al perimetro dello schermo) i passi incerti dell’infanzia nelle stanze di casa. Nel mezzo, in un procedere fra istanti e omissioni dense di senso, prendono forma la gioia dell’amore e del desiderio, della vita insieme, della vita che nasce; si dispiegano le traiettorie delle gabbie culturali, sentimentali e mentali dei personaggi in un triangolo camuffato da rapporto a due; si deformano, così, in modo spietato, inesorabile, le dolcezze del lessico familiare e le premure che le sottendono; si fa sempre più stretta, stringente, la connessione tra le psicologie e la collocazione dei corpi negli ambienti, delle figure nello spazio.

Si fa sempre più vicina, dolorosa, la caduta. Per questo il viaggio in Marocco è il sorriso di Murielle che non si dimentica, tra il cielo e il mare; sono i giochi nell’acqua che le danno il respiro ancora, c’è l’ orizzonte a cui forse far promettere un’apertura. Che, al ritorno in Belgio, non c’è. Perché i maschi diventano sempre più padroni, la donna sempre più marginale fattrice e domestica al loro servizio, senza autonomia, senza voce se non un soffio che i giorni disperdono e soffocano. Mentre la madre di Mounir diventa quasi uno specchio di Murielle: lei vi si riconosce, solo la madre può capire la madre. L’anziana donna preavverte quello che sta per accadere (l'abbraccio reiterato alla nuora all'aeroporto è un congedo che contiene, al contempo, un'assoluzione), il vestito che ha regalato alla nuora è l’ultimo, fragile, attracco alla vita. Di Murielle che, alla fine, rivela il suo volto non già di Medea che uccide i suoi figli ma di Mater dolorosa (alto sale lo struggimento dello Stabat Mater di Haydn in una colonna sonora che cadenza il passo del tragico meravigliosamente), davanti alla croce/morte dei figli. Come ineluttabile compimento di una umana Scrittura.





Titolo: À perdre la raison
Anno: 2012
Durata: 111
Origine: BELGIO, LUSSEMBURGO, FRANCIA, SVIZZERA
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: VERSUS PRODUCTION, SAMSA FILM, LES FILMS DU WORSO, PRIME TIME

Regia: Joachim Lafosse

Attori: Niels Arestrup, Emilie Dequenne, Tahar Rahim, Stéphane Bissot, Mounia Raoui, Redouane Behache, Baya Belal, Nathalie Boutefeu,  Yannick Renier
Sceneggiatura: Joachim Lafosse, Thomas Bidegain, Matthieu Reynaert
Fotografia: Jean-François Hensgens
Montaggio: Sophie Vercruysse
Scenografia: Anna Falguères

Riconoscimenti

Reperibilità


http://www.youtube.com/watch?v=QR8Oft_YAh4

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