alt«Da dove veniva quel bizzarro rumore, quel ritmo lontano?... Un canto sordo che sembrava uscire dalle pareti... Sì, si sarebbe detto che le pareti cantassero!»

(Il fantasma dell’Opera, Gaston Leroux)




Quando si ascolta la tragica e inquietante storia di Sarah Winchester si stenta a credere che sia successa davvero e non sia piuttosto l’opera di fantasia di un maestro dell’orrore del calibro di Edgar Allan Poe o Howard Phillips Lovecraft.

Sarah Pardee divenne Sarah Winchester nel 1862, quando sposò William Winchester, l’unico figlio di Oliver Winchester, fondatore e proprietario della ditta di armi da fuoco Winchester Repeating Arms Company. La guerra di secessione americana era iniziata poco più di un anno prima e si sarebbe protratta fino al 1865 facendo un numero spaventoso di vittime e, per converso, la fortuna dell’azienda Winchester.

«Quando si vuole uccidere un uomo bisogna colpirlo al cuore, e un Winchester è l’arma più adatta» diceva Gian Maria Volonté a Clint Eastwood in Per un pugno di dollari, a dimostrazione di come il fucile in questione sia diventato col tempo qualcosa di più di una semplice carabina: era un simbolo di morte, e di supremazia. Il modello 1873, in particolare, fu largamente utilizzato dai coloni americani in espansione verso l’occidente, tanto da passare alla storia come il “fucile che conquistò il West”, fissandosi nell’immaginario collettivo come uno dei fattori decisivi per la nascita della nazione statunitense.

Il sangue versato sui campi di battaglia, tra atroci sofferenze, efferate mutilazioni e tormentati trapassi, alimentò a dismisura la straordinaria ricchezza della famiglia Winchester. Al termine della guerra civile Sarah e William ebbero una figlia, Annie, la cui vita però non durò che poche settimane a causa di un marasma infantile. La bimba morì tra le braccia della madre. Qualche anno più tardi Sarah si svegliò tra lenzuola sporche di sangue, quello del marito, morto per tubercolosi la mattina dell’8 marzo 1881. Se il primo episodio aveva già compromesso gravemente la sua salute mentale, facendola sprofondare in uno stato di cupa depressione, il secondo la portò alla totale follia. Divenuta ormai l’erede di un patrimonio immenso, dopo aver consultato un medium, si convinse che il suo scopo fosse quello di accogliere e di prendersi cura degli spiriti dei suoi familiari, e di tutti coloro che erano deceduti a causa della guerra. Trasferitasi in California, per i successivi trentotto anni, fino a quando restò in vita, si impegnò a costruire una gigantesca casa che potesse ospitare tutte queste anime.

Sarah Winchester, opéra fantôme di Bertrand Bonello rievoca questa drammatica vicenda, immaginando un’opera teatrale che in realtà non esiste, né è mai esistita: un’opera fantasma. La storia, ripartita in tre atti, è narrata attraverso una serie di didascalie che compaiono in sovraimpressione sullo schermo. Ciò che si vede, però, è solo un tentativo di messa in scena: sul palco spoglio dell’Opéra Garnier di Parigi, un regista/compositore (interpretato dall’attore Reda Kateb, chiaro alter ego di Bonello) sta lavorando con l’étoile Marie-Agnès Gillot alla coreografia di un balletto che però, come accennato, non vedrà mai la luce. La musica elettronica, composta e suonata dallo stesso Kateb/Bonello, accompagna in penombra i passi della ballerina, il cui corpo scarno e leggero, si muove in maniera vagamente obbligata, quasi fosse guidato da fili invisibili, tra (in)coscienza e paura, come se si trovasse costretto a danzare sul ciglio di un baratro. Nel frattempo, altrove, all’Opéra Bastille, un coro diretto da José Luis Basso invoca con insistenza il nome di Sarah Winchester: sono le anime dei morti che chiedono giustizia.

Realizzato nell’ambito del progetto “3e Scène”, terzo (virtuale) palcoscenico dell’Opéra national de Paris, questo cortometraggio di Bertrand Bonello sorprende per la sua straordinaria portata politica e teorica, inserendosi perfettamente in una filmografia e, più in generale, in un pensiero d’invidiabile organicità e coerenza, senza considerare l’incantevole rigore estetico e formale cui il regista francese ci ha oramai abituati. Attraverso la riproposizione e il racconto del caso Winchester, in primo luogo, Bonello offre un ritratto spietato e potente del presente in cui viviamo, proseguendo un discorso sul capitale già centrale nei suoi precedenti lavori e in particolare in L’Apollonide, Saint Laurent e Nocturama: basti pensare all’arricchimento sfrenato per mezzo della guerra, al senso di colpa, all’ipocrisia e a tutte le contraddizioni, non di Sarah, ma di un paese che come lei è profondamente malato e che oggi guida l’occidente e il mondo intero verso una fine senza ritorno. Ma il nostro interesse per Sarah Winchester, opéra fantôme risiede anche – e soprattutto – in altre ragioni.

Come ha scritto Alessandro Baratti con consueta, disarmante chiarezza, il cinema di Bonello «persegue ostinatamente un obiettivo di impressionante precisione: la rappresentazione della sostanziale indecifrabilità degli individui, la loro (e di riflesso la nostra) essenziale irriducibilità a schemi di comportamento dettati dal contesto. Mutano vistosamente luoghi, professioni, inclinazioni sessuali, situazioni sentimentali, epoche e costumi, ma la sostanza resta invariata: ogni soggetto, per quanto sottoposto a feroci condizionamenti ambientali, mantiene un fondo letteralmente imperscrutabile. Quindi infilmabile. Si tratta di una persistenza soggettiva assolutamente misteriosa che si legge soltanto in negativo, paradossalmente: quanto più il contesto esige l’adattamento, la conformazione a regole ferree e ineluttabili, tanto più i personaggi messi in scena reagiscono a modo loro. Il cuore della questione non riguarda il libero arbitrio, ovviamente, ma quel nucleo insondabile che fa di ogni soggetto un’esistenza unica, destinata per questo stesso motivo a confrontarsi con l’inesorabilità della propria differenza» (Baratti 2012).

L’imperscrutabile fondo di cui parla Baratti trova una nuova dimensione – per certi versi esemplare – nell’enigmatica figura di Sarah Winchester. Nel corto in questione, infatti, Kateb/Bonello cerca di rappresentare qualcosa di invisibile e indefinito: non tanto, o comunque non solo, il dolore e la follia di Sarah, quanto il suo essere più profondo e oscuro. L’impossibilità di portare a compimento questo ambizioso proposito trova (nel film) un’esatta corrispondenza nell’impossibilità di realizzare l’opera teatrale e diviene il punto su cui sagacemente decide di concentrarsi Bonello. È per questa ragione che la pellicola manca di un vero inizio e di un vero finale, assumendo le sembianze di un lavoro incompiuto (come i disegni che compaiono a sostegno delle didascalie) e risolvendosi in un eterno processo creativo che però, invece di progredire, paradossalmente, preferisce ritrarsi, assottigliandosi e facendosi sempre più interiore: «danza ma non muoverti. Esegui l’assolo nella tua testa», dice a un certo punto Kateb/Bonello a Marie-Agnès Gillot, chiedendole in altre parole di far sua l’intimità devastata di Sarah, esprimendola senza rappresentarla.

Al centro di Sarah Winchester, opéra fantôme, come in tutto il cinema di Bertrand Bonello, vi è dunque il problema della rappresentazione. Da questo punto di vista la prima immagine del film è forse quella che lo descrive meglio, e ne custodisce il senso ultimo: un grande palcoscenico completamente vuoto, senza scenografie e addirittura “sfondato”, cioè comunicante con la sua parte posteriore, il retropalco, che normalmente dovrebbe rimanere nascosta. Il buio circostante non permette di distinguere chiaramente i confini, ma alla base dell’inquadratura è possibile scorgere una persona che contempla qualcosa dal basso. Ma se di fronte a costui non c’è nulla, cosa guardano allora i suoi/nostri occhi? Il sipario d’altra parte è alzato e di lì a poco appariranno sullo schermo le prime didascalie, la musica si diffonderà nell’aria e l’opera avrà inizio. Il successivo campo medio ci fa capire chi è l’uomo e cosa sta facendo: si tratta del regista/compositore che armeggia con la consolle. Quest’ultimo guarda in maniera abbastanza evidente in direzione del palco, che però questa volta resta fuori campo. Ancora una volta ci si domanda cosa stia osservando di preciso. Subito dopo si passa alla vestizione di Marie-Agnès Gillot, attraverso un paio di primi piani del suo corpo consumato. Si assiste, cioè, ad una impossibile reincarnazione di Sarah. Questi elementi lasciano intuire la natura assolutamente relativa e fantasmatica della rappresentazione: non tanto quella operata dal teatro, continuamente interrotta e smascherata nel film, quanto quella più sottile e insidiosa posta in essere (e al tempo stesso messa in dubbio) dal film.

Quanto sostenuto fino ad ora trova conforto anche in altre sequenze del film (il corpo della ballerina che si sdoppia nello specchio, la misteriosa quanto forzata apparizione della piccola Annie) e più in generale nell’intera filmografia di Bonello che è disseminata di momenti in cui la presunta realtà del film viene messa in discussione: si pensi ad esempio alle atmosfere oniriche e oppiacee de L’Apollonide, o alla scena di De la guerre in cui Mathieu Amalric esce dalla bara dove era rimasto accidentalmente rinchiuso e il corso degli eventi prende gradualmente una strana piega. In Sarah Winchester, opéra fantôme, però, la riflessione sul cinema e sulle sue capacità illusorie e immaginifiche si fa ancora più esplicita, trovando una sintesi pressoché perfetta in un’immagine che – altro paradosso – nel film non esiste: una casa infestata dai fantasmi.

L’abnorme e delirante abitazione di Sarah Wichester viene infatti rappresentata solo indirettamente nel film, attraverso un chiaro accostamento alla struttura, altrettanto complessa e labirintica, dell’Opéra Garnier, che ci viene in parte svelata quando l’occhio meccanico della mdp segue la piccola Annie dietro le quinte del teatro. Spazi angusti, claustrofobici, tenebrosi, pieni di scale, porte e passaggi sotterranei, resi celebri dal romanzo di Gaston Leroux che (anche lui!) li immaginava abitati da un fantasma. Non è difficile pensare al cinema di Bonello in questi stessi termini. I suoi film, d’altra parte, sono sempre luoghi, territori definiti da un perimetro, posti chiusi, suddivisi in stanze dove il tempo è sospeso, stravolto, ripensato. L’esempio più lampante è ancora una volta L’Apollonide, che si svolge all’interno di una maison close; ma prestando attenzione si noterà che qualcosa di simile succede anche in tutti gli altri titoli che compongono la sua filmografia. Il film, d’altra parte, è per definizione uno spazio chiuso, popolato da spettri senza volume.

Il cinema è una questione di credenza. A suo modo chi crede nel cinema crede nei fantasmi. I film che preferiamo sono quelli che permettono a chi guarda di proiettare i propri spettri all’interno del quadro. Ecco perché uno spazio vuoto, o un gesto trattenuto, qualcosa cioè che richiede un completamento da parte di chi guarda, sono elementi essenziali nell’opera di Bonello. Ed è proprio in questa maniera che il suo cinema si spalanca al mondo, includendolo tutto. Ripensando nuovamente alla prima immagine di Sarah Winchester, opéra fantôme, torna in mente il famoso dipinto di Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare. Ecco cosa c’è su quell’immenso palcoscenico che qualcuno contempla dal basso: l’infinito.


Sitografia:

Baratti A. (2012), Quelque chose d’organique, in «Spietati.it».





Titolo: Sarah Winchester, opéra fantôme
Origine: France
Anno: 2016
Durata: 23'
Colore: C
Genere: DRAMMATICO
Produzione: MY NEW PICTURE

Regia: Bertrand Bonello

Attori: José Luis Basso, Juliette Vial, Marie-Agnès Gillot, Reda Kated
Sceneggiatura: Bertrand Bonello
Fotografia: Irina Lubtchansky
Montaggio: Fabrice Rouaud

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